sabato 28 luglio 2012

On the way back

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Ci fermiamo un minuto appena lungo la strada che scende verso il Custer State Park, per scattare una foto veloce al profilo di George Washington scolpito nella roccia. Dalla nostra prospettiva non si vede altro, ma non c’è molto da vedere. I volti dei quattro Presidenti degli Stati Uniti - Washington, Lincoln, Roosevelt e Jefferson - attirano migliaia di turisti verso il Monte Rushmore, ma il nostro vero obiettivo era il vicino parco nazionale, che ospita svariate centinaia di bisonti in libertà, nonché i Needles.

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Lo dice la parola stessa: “needle” significa “ago”, e davvero le guglie di granito che si alzano sottili verso il cielo sono simili a degli aghi, o a dei “penitentes” serrati gli uni vicini agli altri lungo i tornanti e nelle vallate. Neanche a dirlo, nei Needles si scala (rigorosamente trad), ma purtroppo il tempo non ci basta, dobbiamo tornare; ci possiamo permettere solo un’escursione di due ore fino ad Harney Peak, la cima più alta della zona, che con i suoi 2200 metri è anche il punto più alto fra i Pirenei e le Rocky Mountains.

Jaco, mi stai prendendo in giro? No, ovviamente no, basta fare il giro del globo dal lato giusto .

L’escursione - con i suoi 300 metri di dislivello - viene definita “strenuous”; i turisti che vengono in zona magari sono più sportivi della media, ma mai abbastanza da classificare la nostra camminata come “medio-facile”. Meglio avvisare tutti che l’escursione è estenuante, in modo da tutelarsi contro eventuali lamentele, o peggio.

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Purtroppo per Jaco, che ci teneva proprio, non incontriamo nessun bisonte, ma ci imbattiamo invece in un cervo che è abbastanza tranquillo, o curioso, da permettermi di fotografarlo; non solo, ma siamo letteralmente circondati dagli scoiattoli, che attraversano fulminei il sentiero appena ci sentono arrivare.

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sabato 21 luglio 2012

Ten Sleep

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Temperatura intorno ai 40° (celsius); niente che interrompesse la monotonia del paesaggio fra Devil’s Tower e Buffalo, sulla strada per Ten Sleep. Contrariamente a quanto ci saremmo aspettati, però, la Highway 90 era tutt’altro che deserta. Sembra che gli americani non possano resistere al richiamo della strada, e ad ogni buona occasione si mettono in macchina, o in moto, chi per raggiungere una località definita, chi semplicemente per viaggiare. Prima di lasciare Devil’s Tower avevamo incontrato due ragazze che erano partite dall’Oregon - costa ovest - con destinazione New York - costa est. I bagagli le avrebbero raggiunte dopo. Cambiavano città e vita. Tempo di viaggio: due mesi. Mezzo utilizzato: bicicletta. Provate a immaginare voi stessi mentre pedalate sotto il sole a picco, quasi desertico: davanti a voi, per decine e decine di miglia, un paesaggio simile a quello della foto (le strade sono asfaltate, noi eravamo appena fuori dell’autostrada). Come loro, molti altri pedalavano lungo la 90, diretti chissà dove.

Dopo Buffalo avevamo finalmente intravisto le montagne. La strada saliva e curvava, anche se non con gli stretti tornanti delle Alpi. Dopo sei mesi in cui la massima altitudine che avevamo raggiunto poteva essere sì e no 300 metri, c’eravamo trovati a quasi 2500; e continuava a fare caldo. Eravamo arrivati a Ten Sleep.

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Ten Sleep è un comprensorio di falesie situate lungo i lati del canyon omonimo; le diverse esposizioni permettono di scalare anche in piena estate, ma lo stile è abbastanza uniforme. Pareti verticali o leggermente strapiombanti a buchi e tacchette. Chiodatura da manuale, talvolta fin troppo ravvicinata. Unico neo: eravamo arrivati nella settimana del 4 luglio, in corrispondenza del festival che si tiene tutti gli anni in quel periodo. Cosa che, tradotta, significa che un posto normalmente deserto era talmente pieno di gente da non riuscire a scalare. Nei settori più gettonati, i local salivano in falesia ben prima che la parete andasse in ombra e aspettavano sotto al proprio tiro, per essere sicuri di occuparlo per primi. Una ragazza svizzera ci aveva raccontato di avere aspettato un’ora e mezza per provare un 7b, e di avere poi rinunciato quando gli scalanti le avevano fatto capire che per lei non c’era spazio.

Avevamo adocchiato sulla guida alcuni 7c che sembravano interessanti, ma la quantità di gente in coda ci aveva tenuto lontano - a meno di voler fare due tiri in tutto il giorno. Lo stile che andava per la maggiore era quello dell’assedio, dunque meglio rinunciare… In compenso, io avevo salito flash un 7b di ripiego che si era rivelato magnifico, così come tutte le vie fra il 7a e il 7b su cui avevamo messo le mani. La folla sembrava concentrata fra due settori, lo Slavery e il French Cattle Ranch, dove ovviamente bisognava accontentarsi di quello che si trovava libero; ma chiedendo in giro, pochi conoscevano gli altri settori. Così ci eravamo guadagnati una giornata di solitudine alla Mecca, su una parete circondata da grossi massi caduti e ammassati contro il fianco della montagna, in un silenzio surreale. Beh, considerato che avevamo camminato un’ora, rischiando più volte di perderci, non era strano che la falesia fosse deserta….

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L’ultimo giorno ci eravamo imbattuti in Jonathan Siegrist, l’astro nascente dell’arrampicata sportiva americana. L’avevo intervistato la settimana prima, ma ovviamente incontrarlo di persona era un’altra cosa. Alla mano, sorridente, ci aveva raccontato dei suoi progetti e a sua volta ci aveva chiesto se gli americani fossero disponibili e ospitali nei nostri confronti. “Dove vivi?” gli avevo chiesto alla fine, aspettandomi che rispondesse “Colorado”.

“In realtà non ho un posto fisso”, aveva risposto facendo spallucce. “Giriamo col furgone.” Da una falesia all’altra, da un progetto all’altro, fra Europa e Stati Uniti. Chi vuole fare a cambio?

sabato 14 luglio 2012

El Matador

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Sette e mezza. Eravamo i primi, nemmeno i turisti avevano ancora preso d’assalto Devil’s Tower. L’aria era fresca, l’ombra avvolgeva la parete ovest dove avevamo intenzione di scalare. Jaco conosceva già la via, o meglio, ne conosceva il tiro più duro, El Matador, che è anche una delle lunghezze più famose e scalate della torre, ma questa volta ci avrebbe portato fino in cima: eravamo alquanto seccati non poter rispondere ai turisti che chiedevano che cosa ci fosse, lassù. Visto che avevamo poco tempo a disposizione - circa quattro ore prima che il sole inondasse il lato ovest, friggendoci come uova - Jaco avrebbe tirato tutte le lunghezze, ma siccome era il mio compleanno, Jaco ci avrebbe fatto uno sconto sulla giornata…. La fortuna di avere sposato una guida alpina! Né io né Wes saremmo stati in grado di a) salire e b) salire in fretta. Il giorno prima mi ero lanciata (o meglio, mi avevano lanciato) su un 5.10d da prima, ma El Matador era tutta un’altra storia. 60 metri di via fra due colonne che piano piano si avvicinano, dando la possibilità di spaccare da metà tiro in poi, dopo una prima parte di incastro di mano e di piedi. Sembra una liberazione, poter finalmente scaricare il peso spaccando fra le due colonne, ma dopo i primi metri i polpacci iniziano a bruciare, e la sosta è ancora lontanissima. Ogni tanto qualche appiglio microscopico si presta a dare un po’ di sollievo, ma per il resto si va avanti un passo dopo l’altro, sposta il peso sulla spalla, palmo della mano contro la roccia, alza un piede, spalma, sposta il peso, alza l’altro piede. Sembra di essere alla deriva in un oceano di linee verticali che corrono via verso l’alto. Su una colonna vicina uno spit solitario protegge una placca su cui non si riesce a intravedere nessun appiglio, e un maillon abbandonato conferma che probabilmente non c’era davvero nulla.

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Negli ultimi tre tiri le fessure si aprono e la roccia diventa meno compatta, più difficile da proteggere. Sembra che da un momento all’altro possa cadere tutto, ma non succede niente. In cima c’è già il sole, feroce, che brucia una radura erbosa in leggera pendenza. Bastano poche decine di metri per raggiungere il punto più alto, segnato da un mucchio di rocce e da un palo di ferro piantato in verticale; attorno il paesaggio di leggere colline, verde sbiadito segnato da alberi, qua e là, a 360°. Qualche decennio fa un paracadutista spericolato era rimasto bloccato sulla cima di Devil’s Tower per parecchi giorni; era riuscito a lanciarsi e ad atterrare sulla torre secondo i piani, ma non aveva pianificato la discesa, e il cattivo tempo aveva tenuto lontano i soccorsi per quasi una settimana. Ci caliamo sotto il sole, osservando la gente sul sentiero che guarda verso di noi, con il naso all’insù.

La sera siamo ospiti a cena al Lodge, insieme ai clienti di Frank; sul tavolo, al posto che mi è stato assegnato, c’è un bigliettino di auguri scritto a mano. Attraverso la vetrata cui Frank dà le spalle si vede Devil’s Tower. La presenza della torre, e la presenza di Frank, rendono questo posto speciale. Non avrebbe potuto esserci un modo migliore di festeggiare un compleanno….

Blessed are Those who Live Out their Dreams. E’ proprio vero.

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martedì 10 luglio 2012

Devil's Tower, ovvero Grizzly Bear's Lodge

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Lasciare Devil’s Tower non è stato facile; la nostra tenda era piantata nel campo di Frank Sanders, amico di Jacopo dai tempi del suo primo viaggio in America; Frank è più che una guida, è l’anima del luogo, un mistico che ama la vita e che si è scelto come buen retiro uno dei luoghi più suggestivi degli Stati Uniti. Il lodge di Frank non era adatto alle nostre tasche, ma agli amici Frank concede di piantare la tenda nel suo campo, e di usare la doccia che ha costruito apposto. Una doccia all’aperto, con qualche doga di legno per un minimo di intimità, da cui si può ammirare la torre, in lontananza, dietro agli alberi.

Devil’s Tower - o meglio, la Dimora dell’orso - è un luogo sacro per gli indiani Lakota, che la utilizzavano per orientarsi e trovare le Black Hills; le colonne che la caratterizzano sarebbero state create dagli artigli di un orso gigantesco che inseguiva alcune fanciulle. La geologia, più prosaicamente, parla di magma raffreddatosi troppo in fretta, sotto terra, e fratturatosi per effetto della pressione. Colonne a 4, 5, 7 facce ne costituiscono la struttura. Una fuga prospettica inimitabile, un paradiso per chi ama l’arrampicata in fessura.

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L’arrivo era stato un po’ difficile, dopo il viaggio di almeno venti ore attraverso Indiana, Illinois, Wisconsin, South Dakota e infine Wyoming. We, Jaco ed io c’eravamo dati più volte il cambio, ma una tirata unica non era fattibile. C’eravamo fermati a Mitchell, un luogo di passaggio, che tuttavia cerca di fregiarsi di qualche attrattiva: città natale di McGovern, sito di scavi archeologici (non chiedeteci cosa vadano cercando…) ma, soprattutto, sede dell’unico, inimitabile Palazzo di Mais, una specie di castello in stile russo decorato su tutta la superficie di mais, in chicchi e pannocchie. Capisco ora perché uno dei miei scrittori preferiti odiasse tanto le distese di mais… Da Mitchell in poi, per ore e ore, solo più colline e praterie bruciate dal sole e mucche al pascolo. Il selvaggio west, il far west, era qui. Erano queste le terre dei bisonti e degli indiani, i cosiddetti “sioux”, in realtà Lakota e Dakota, un vasto insieme di tribù accomunate dalla stessa cultura, che popolavano le pianure centrali degli Stati Uniti; cacciati anche dalle Black Hills ai tempi della corsa all’oro e ora confinati nelle riserve. Molti indiani disapprovano che si scali la torre, un luogo per loro sacro (il cui vero nome sarebbe la “dimora degli orsi grizzly”) cosicché, in segno di rispetto, nel mese di giugno si pratica un’astensione volontaria dalle escursioni e dall’arrampicata.

Noi arriviamo, manco a farlo apposta, il 1° luglio. Centinaia di turisti arrancano sul sentierino asfaltato da cui si alzano vampate di calore, molti già esausti per una camminata brevissima; ma appena ci vedono, con gli zaini e le corde, iniziano a tempestarci di domande.

Ma scalate la Torre? E arrivate fino in cima? Ma quanto ci va? Una signora decide di seguirci, dopo avere dichiarato di volerci vedere scalare. Per fortuna il sentiero è in salita e la perdiamo di vista dopo pochi minuti.

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Abbiamo giusto qualche ora, ma le vie sono tutte di due o tre tiri; solo alcune salgono fino in cima, a causa della scarsa qualità della corona superiore (più a lungo esposta all’erosione degli elementi), mentre altre sono conosciute per un singolo tiro. Considerato quando sono state salite, e come, i gradi danno da pensare. Anni 70, anni 80. E questo sarebbe un quinto? I tiri facili spesso sono talmente dipendenti da una corretta tecnica di fessura che, per i non iniziati, risultano più ostici dei gradi duri, e così un quinto di fessura di mano può dare molto più filo da torcere che una fessura di dita. Sia Jaco sia Wes usano i piedi in maniera disinvolta, io cerco di imitarli, ma è complesso capire la dinamica del movimento, come infilare il piede, torcerlo e caricare il peso, cercando al tempo stesso di ridurre il dolore. Grugnisco e sbuffo, appena posso sfrutto le tacche e i quarzi della roccia, molto simile al granito (in realtà è basalto), anche per dare sollievo alle mani dolenti. Infilo, incastro, tiro, infilo, incastro, tiro; sono quasi convinta che quest’arrampicata non faccia per me.

Non potevo sapere che nessuno sfugge al fascino di Devil’s Tower, e che in soli tre giorni questo posto mi avrebbe conquistato, come aveva già fatto con Jaco prima di me.

venerdì 6 luglio 2012

Stiamo lavorando per voi!
Abbiamo lasciato Devil's Tower due giorni fa e fino a sabato rimarremo a Tensleep, sempre in Wyoming, ma questa volta a scalare sul calcare. Arrampicata talmente sportiva che a volte i rinvii sembrano perfino troppo vicini. Saremo di nuovo operativi da martedì con le foto della torre e del viaggio, ma ci sono troppe cose da raccontare per riuscire a farlo di fretta con una connessione rubata al volo... Comunque no, non vi faremo vedere il Palazzo di Mais di Mitchell (un palazzo in stile russo nel mezzo della pianura statunitense, decorato con chicchi d mais e pannocchie su tutta la superficie), nonostante sia l'unico al mondo. Forse vi faremo vedere un bisonte (se riusciremo a incontrarlo da vicino e se non saremo attaccati), ma sicuramente possiamo iniziare a farvi vedere i cani della prateria di Devil's Tower.


Guardate sulla cartina dove siamo (Tensleep, WY) e dove dobbiamo tornare... In macchina, ovviamente, attraversando centinaia di miglia di far west, praterie bruciate dal sole... Ma lo fanno tutti, in tanti, tantissimi si spostano su quattro ruote; abbiamo perfino incontrato due ragazze che attraversavano gli USA, dall'Oregon a New York, in bicicletta, sotto un sole impietoso... E noi ci lamentiamo della macchina?