lunedì 27 agosto 2012

2000km per pitch

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You never know. Well, that’s so true, and we proved it yesterday, our first day back home, when we spent the afternoon at a crag we normally would have scorned, Le Pozze. Located in a narrow gorge on a river that has considerable water even in the summer, the crag is somehow gloomy, humid and more often than not chipped.

But it is one of the climbing areas closer to home, and one of the few suitable for this heat.

We did not have many alternatives, considering that we woke up at 1.30pm and were both still dizzy from the jet lag; but surprisingly enough, we managed to enjoy the slippery holds and secluded feeling. A crag 30 minutes from home is a luxury that demands to be acknowledged, but we did not realize that until we moved to a place where the closest outdoor climbing is 6 hours away.

Thus, we looked at it with different eyes. With a hint of nostalgia, too.

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There is not much choice of routes, and the schedule allows for little variations. We had never warmed up on the 5.11a crack that follows on the left the daunting bombé (the hard routes on the overhang are a chipping fest, but would have been unclimbable otherwise), and I proposed to climb it for a change. I reckon that I wouldn’t have ventured to do so, hadn’t it been for our trips to New River and Devil’s Tower. I never thought that the bolts were out of place on the crack of Le Pozze, and I still don’t think there’s much to say about them, since they belong to a different age; but I am pretty sure nobody would have thought of bolting that line, in the U.S.

Yeah, that’s right, I have a crush for cracks, I admit it. And yet, crimping our small, nasty crimpers felt so good!

We would never have thought that we could travel from the United States to climb here, in this crag from the 90s; 8000 kilometers to get here and climb 4 pitches in a late summer afternoon. That amounts to a ratio of 2000 kilometers per pitch: we’ve broken all previous records!

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sabato 18 agosto 2012

Woodward Dream Cruise

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Se mai doveste capitare a Detroit durante la terza settimana di agosto e se non foste fan delle macchine d’epoca, evitate Woodward Avenue, la strada per eccellenza, che dal 1800 attraversa la città - e i suoi suburbs - lungo la Saginaw Trail, una via di comunicazione risalente agli indiani, che collegava Detroit con Pontiac, Saginaw e Flint.

Woodward è la prima autostrada degli Stati Uniti: Woodward avenue sta alle highway come Yellowstone sta ai parchi nazionali; non per niente, il segretario americano ai trasporti dichiarò, nel 2002, che “Wodward Avenue mise le ruote all’America”. Del resto, da queste parti le alternative per spostarsi non sono molte; nel cuore della civiltà dell’auto, pare che lo stesso Henry Ford avesse fatto pressione affinché non venissero sviluppati i trasporti pubblici. Tutti dovevano avere un’auto (e se possibile, più d’una!)

La Dream Cruise celebra i tempi d’oro degli anni ’50 e ’70, quando era normale “sfilare” lungo Woodward e mettersi in mostra nei drive-in di Woodward; ciò significa che nella settimana di Ferragosto, dagli Stati Uniti, e dal resto del mondo, si riuniscono a Detroit tutti gli appassionati di auto, d’epoca e non, per creare un unico, lungo, interminabile ingorgo lungo Woodward. Il traffico si propaga anche alle vie traverse e parallele, a causa della migliaia di auto che cercano di immettersi su Woodward. Calcolate di metterci il doppio del tempo per andare da qualsiasi parte.

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Fin qui, tutto bene. La cosa più difficile da capire è la gente che si accampa a bordo strada, sulle aiuole e non, con sedie da campeggio, tavole imbandite e ombrelloni, per ammirare le macchine che passano; e non solo su Woodward, magari persino sulle stradine secondarie, lontano dal flusso delle “muscle cars” in bella mostra. Giorni e giorni di pic nic ininterrotto condito dai fumi del traffico. I passeggeri veleggiano - forse il termine è esagerato, visto che si procede a passo d’uomo - guardandosi attorno per cogliere gli sguardi degli spettatori e la loro ammirazione.

La macchina come estensione di se stessi e celebrazione del proprio status. Certo che a molti piacerebbe trovarsi al volante di una Mustang - magari gialla, o comunque molto tamarra, tipo blu con le strisce bianche lungo tutta la lunghezza - ma il desiderio di identificazione svanisce in fretta quando si intuisce dietro al finestrino la massa umana che guida la macchina. Più la mia macchina è cool più lo sono anche io in genere significa che le auto più belle sono guidate dagli individui meno attraenti; e considerando che Mustang e Camaro sono i modelli preferiti delle donne borghesi fra i 30 e i 50 anni, che non sanno cosa sia il cambio, non sanno fare una curva e solitamente nemmeno guidare, tutto sommato preferisco la bicicletta.

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domenica 12 agosto 2012

Downtown Detroit

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Ci avevano raccontato che a Detroit, nello sfacelo dei quartieri un tempo ricchi e ora caduti in abbandono, si nasconde un golden ghetto, un’isola protetta dove le case sfarzose dell’inizio del ‘900 sono state ristrutturate e sono nuovamente abitate. Il paesaggio cambia di punto in bianco, basta girare l’angolo e si respira un’aria diversa; non necessariamente del lusso, ma certo molto diversa dalla miseria delle strade attorno alla stazione. Stazione che, tra l’altro, è più piccola di quella di Trofarello; due soli binari, quattro o cinque treni al giorno, e una stanza di 40 metri quadri come sala d’attesa e biglietteria.

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Molte case del Boston-Edison Historic District, uno dei primi quartieri residenziali degli Stati Uniti (Henry Ford viveva qui) - sono troppo costose da ristrutturare, e troppo costose da mantenere; attorno c’è il deserto urbano, strade grigie e negozi fatiscenti, povertà diffusa e nessun centro commerciale, il simbolo della classe media americana.

E’ più facile ricostruire tutto ex-novo da un’altra parte, come accade per le fabbriche, gusci vuoti, ricordo di quando Detroit era una delle città più popolose e produttive degli Stati Uniti (produttiva lo è ancora, ma il mercato dell’auto non sostiene più tutte le famiglie che un tempo vivevano di quello). L’eredità della “motor city” sono i capannoni abbandonati che catturano inevitabilmente lo sguardo quando si arriva in città dall’autostrada. Fanno la felicità degli esploratori urbani e dei fotografi, che si lanciano alla scoperta delle fabbriche fantasma con almeno un’arma per gruppo e il timore che la macchina venga aperta e/o rubata nel frattempo.

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(la foto è di Alberto Formento, uno dei suddetti fotografi…)

Le storie di violenza che di tanto in tanto gli amici raccontano sembrano incredibili, considerando la tranquillità della cittadina in cui viviamo, a maggioranza rigorosamente bianca; un amico medico, che lavora in un pronto soccorso di Detroit è stato testimone di una sparatoria, insieme alla fidanzata, proprio il giorno del suo arrivo in città, e al lavoro una percentuale non indifferente dei casi che tratta sono ferite da arma da fuoco.

La città ci ricorda che il mondo reale è diverso dalla quiete dei nostri sobborghi, ci ricorda che accanto alle ville miliardarie si annida una povertà apparentemente impossibile da cancellare, il sogno americano alla rovescia.

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sabato 4 agosto 2012

Sleeping Bear Dunes

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L’estate è una stagione dura, in Michigan. Le falesie di casa - Red River e New River - si trasformano in foreste tropicali, piene di insetti e serpenti (quelli velenosi, i copperhead) con un tasso di umidità che supera il 100% e nemmeno un filo d’aria. Per questo gli arrampicatori che ad agosto non possono andare in vacanza - come noi - vanno in letargo fino a fine mese, o a inizio settembre, in attesa che l’autunno ricacci tutte le bestie nelle loro tane e che la temperatura diventi più tollerabile. Il lato positivo della cosa è che scaleremo nella stagione migliore, e in programma abbiamo una o due settimana a Red River con tutta la compagnia.

Ma torniamo al presente. Il caldo e una visita di parenti sono buone scuse per visitare un angolo del Michigan che si chiama Sleeping Bear Dunes (ovvero le dune dell’orso che dorme), dove il casino tipico dei laghi - chiatte, motoscafi, sci d’acqua, bimbi a cavallo di banane giganti - è stranamente assente: si tratta di un parco naturale, e per nostra fortuna non vi si può accedere con barche o mezzi a motore, né con altre diavolerie tecnologiche. Per questo le spiagge sono tutto sommato poco frequentate, o meglio deserte; si può camminare per un’ora senza incontrare praticamente nessuno.

Quando arriviamo in spiaggia quasi non crediamo ai nostri occhi. Adesso capiamo perché questo posto è stato dichiarato, due anni fa, il luogo più bello d’America (non del Michigan, di tutti gli USA!)

E questo sarebbe un lago? Stentiamo a crederlo, sembra piuttosto di essere al mare. L’acqua è limpida e trasparente, priva del tipico odore di salmastro che caratterizza i laghi. Piccole onde increspano la superficie, e vicino a noi ci saranno sì e no quindici persone. E’ un paradiso.

Devo tenere a mente che non bisogna mai fare affidamento sugli altri per le foto. Decido di non portare la macchina, e sbaglio. L’unica immagine lascia alquanto a desiderare, ma laggiù, in lontananza, dove la costa si spinge nel mare (oops, nel lago), ci sono le dune. E sulle dune si scala. Chiariamo, la chiamano “dune climb”, ma ovviamente con l’arrampicata ha poco a che fare; si tratta piuttosto di una camminata che ricorda le scarpinate in montagna, con la differenza che il terreno è sabbioso, e che ci si inerpica per dune alte fino a 30 metri. Il sentiero conduce fino al lago, e da lì si torna indietro, per un totale di 4 o 5 miglia. Non sono granché, ma non dimenticate il fattore sole e caldo (90 gradi, a picco) e il fattore sabbia. Due miglia in salita sulla sabbia - sabbia profonda, come in spiaggia o nel deserto - non sono mortali, ma richiedono già un certo impegno. La partenza è una muraglia di sabbia alta trenta metri, che nasconde il paesaggio retrostante; in molti salgono allegramente in ciabattine e senza acqua credendo che il lago sia appena oltre (e ovviamente ne rimangono talmente delusi che tornano subito indietro). Noi camminiamo per un’ora, sperando che dietro ogni gobba si riveli l’acqua, ma quando ciò succede, e l’acqua si rivela, non è affatto vicina. Il lago Michigan è ancora lontanissimo.

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Tuffarsi nel lago è il giusto premio per avere tenuto duro. Entriamo in acqua completamente vestiti, in maniera che lungo il sentiero del ritorno gli indumenti bagnati ci rinfreschino un po’. Incrociamo un gruppo di cinesi che ci chiedono se il lago sia vicino quando ormai siamo arrivati al parcheggio. “Beh, non proprio”, rispondiamo, incerti se metterli in guardia o lasciare che vadano incontro al proprio destino. Sulla duna che scende verso il parcheggio ci sono due o tre persone arenate come balenottere nella sabbia, che chiaramente non proseguiranno oltre. Un altro gruppo di cinesi si accinge a partire, senza acqua e tutti con le infradito ai piedi. Ci impietosiamo e gli consigliamo di mettersi almeno le scarpe da ginnastica. Il padre richiama immediatamente i figli e sembra dubbioso. “Allora non è vicino, eh? Ma non ci posso arrivare in macchina?”