sabato 21 luglio 2012

Ten Sleep

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Temperatura intorno ai 40° (celsius); niente che interrompesse la monotonia del paesaggio fra Devil’s Tower e Buffalo, sulla strada per Ten Sleep. Contrariamente a quanto ci saremmo aspettati, però, la Highway 90 era tutt’altro che deserta. Sembra che gli americani non possano resistere al richiamo della strada, e ad ogni buona occasione si mettono in macchina, o in moto, chi per raggiungere una località definita, chi semplicemente per viaggiare. Prima di lasciare Devil’s Tower avevamo incontrato due ragazze che erano partite dall’Oregon - costa ovest - con destinazione New York - costa est. I bagagli le avrebbero raggiunte dopo. Cambiavano città e vita. Tempo di viaggio: due mesi. Mezzo utilizzato: bicicletta. Provate a immaginare voi stessi mentre pedalate sotto il sole a picco, quasi desertico: davanti a voi, per decine e decine di miglia, un paesaggio simile a quello della foto (le strade sono asfaltate, noi eravamo appena fuori dell’autostrada). Come loro, molti altri pedalavano lungo la 90, diretti chissà dove.

Dopo Buffalo avevamo finalmente intravisto le montagne. La strada saliva e curvava, anche se non con gli stretti tornanti delle Alpi. Dopo sei mesi in cui la massima altitudine che avevamo raggiunto poteva essere sì e no 300 metri, c’eravamo trovati a quasi 2500; e continuava a fare caldo. Eravamo arrivati a Ten Sleep.

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Ten Sleep è un comprensorio di falesie situate lungo i lati del canyon omonimo; le diverse esposizioni permettono di scalare anche in piena estate, ma lo stile è abbastanza uniforme. Pareti verticali o leggermente strapiombanti a buchi e tacchette. Chiodatura da manuale, talvolta fin troppo ravvicinata. Unico neo: eravamo arrivati nella settimana del 4 luglio, in corrispondenza del festival che si tiene tutti gli anni in quel periodo. Cosa che, tradotta, significa che un posto normalmente deserto era talmente pieno di gente da non riuscire a scalare. Nei settori più gettonati, i local salivano in falesia ben prima che la parete andasse in ombra e aspettavano sotto al proprio tiro, per essere sicuri di occuparlo per primi. Una ragazza svizzera ci aveva raccontato di avere aspettato un’ora e mezza per provare un 7b, e di avere poi rinunciato quando gli scalanti le avevano fatto capire che per lei non c’era spazio.

Avevamo adocchiato sulla guida alcuni 7c che sembravano interessanti, ma la quantità di gente in coda ci aveva tenuto lontano - a meno di voler fare due tiri in tutto il giorno. Lo stile che andava per la maggiore era quello dell’assedio, dunque meglio rinunciare… In compenso, io avevo salito flash un 7b di ripiego che si era rivelato magnifico, così come tutte le vie fra il 7a e il 7b su cui avevamo messo le mani. La folla sembrava concentrata fra due settori, lo Slavery e il French Cattle Ranch, dove ovviamente bisognava accontentarsi di quello che si trovava libero; ma chiedendo in giro, pochi conoscevano gli altri settori. Così ci eravamo guadagnati una giornata di solitudine alla Mecca, su una parete circondata da grossi massi caduti e ammassati contro il fianco della montagna, in un silenzio surreale. Beh, considerato che avevamo camminato un’ora, rischiando più volte di perderci, non era strano che la falesia fosse deserta….

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L’ultimo giorno ci eravamo imbattuti in Jonathan Siegrist, l’astro nascente dell’arrampicata sportiva americana. L’avevo intervistato la settimana prima, ma ovviamente incontrarlo di persona era un’altra cosa. Alla mano, sorridente, ci aveva raccontato dei suoi progetti e a sua volta ci aveva chiesto se gli americani fossero disponibili e ospitali nei nostri confronti. “Dove vivi?” gli avevo chiesto alla fine, aspettandomi che rispondesse “Colorado”.

“In realtà non ho un posto fisso”, aveva risposto facendo spallucce. “Giriamo col furgone.” Da una falesia all’altra, da un progetto all’altro, fra Europa e Stati Uniti. Chi vuole fare a cambio?

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