Non è facile descrivere Red River Gorge; l’estrema varietà dei settori non permette di abbracciare con poche parole la diversità dei paesaggi e le forme sorprendenti che la roccia assume di volta in volta. L’arenaria - rivelata dall’acqua che nel corso dei millenni ha scavato il terreno - non è mai uguale a se stessa, benché sia sempre assolutamente perfetta.
Bisogna andare a cercarla fra una vegetazione lussureggiante, quasi subtropicale, addentrarsi fra gli alberi che nascondono anfiteatri immensi che sprofondano verso il basso, disegnando profili incombenti e senza fine, incredibilmente aggettanti.
Strapiombi continui solcati da fessure o tempestati di buchi, e ancora muri che regalano un’aderenza perfetta e per qualche metro soltanto l’illusione della verticalità.
Due giorni non bastano, ma non basterebbero nemmeno anni.
Senza Mark e Jon - i nostri compagni di viaggio - saremmo stati perduti, molto probabilmente incapaci di decidere da dove incominciare.
Forse immaginando che dovessimo fare ammenda per i nostri precedenti errori, il primo giorno ci hanno portato a Purgatory, dove Jon aveva in progetto di chiudere Dracula (5.13b - 8a+); purtroppo abbiamo espiato tutti, ma in particolare Jaco e ancora di più io, alle prese con un’inclinazione e con prensioni cui è necessario fare l’abitudine. Basti dire che Mark ci prendeva in giro vedendoci inarcare microtacche piatte: “Bisogna pinzarle, basta mettere il pollice sotto, sono delle zanche”, ci ha poi spiegato con un sorriso.
(qui sotto: Jon su Dracula)
Un nutrito gruppo di francesi, capitanato da Enzo Oddo, animava la falesia con una chiassosità più europea che americana, resi baldanzosi dal recente successo di Oddo su Pure Imagination.
Dylan, 17 anni, amico di Jon e Mark e frequentatore di Ann Arbor, guardava Oddo partire su Lucifer (5.14d - 8c+/9a, una delle vie più dure di Red River), cadere sul crux e riprovare alla ricerca del metodo. Anche lui aveva fatto i suoi tentativi sulla via, quasi silenziosamente, in compagnia del padre. Timido, riservato, ma sorridente. Per quel giorno poteva bastare; un resting da togliere, ma Lucifer è lì a portata di mano. “Forse vado al Motherlode”, dice a Jon prima di andarsene.
(in alto: una vista di Purgatory, qui sotto: Dylan su Lucifer)
Ma che cos’è il Motherlode? La traduzione più vicina potrebbe essere “una quantità della Madonna”, intendendo probabilmente “roba che spacca tanta ce n’è”. Immaginate un anfiteatro di arenaria a strati orizzontali, alto circa 40 metri sulla verticale, con un’inclinazione continua di 45°, talvolta di più; la linea di calata dalla catena dei tiri più strapiombanti dista anche 30 o 40 metri dalla partenza.
Appena sceso dall’ultimo o penultimo tiro della giornata Transworld Depravity (5.14a - 8b+), Dylan ci saluta e ci chiede “Allora, cosa ve ne pare?”
Mark e Jon ci mostrano le vie una dopo l’altra, mentre si godono il nostro stupore. In falesia non c’è quasi nessuno, sembra di avere attraversato i millenni per tornare alle foreste della preistoria, passata o futura. Una cascata sottile cade in mille goccioline dalla corona di arenaria che chiude il cielo, quasi a sottolineare quel senso di distacco da tutto quello che c’è fuori, telefoni, televisori, rumori e asfalto, il XXI secolo in generale. La carcassa di una macchina, anche quella, appartiene a un altro tempo.
“Tipico del Kentucky, direi”, spiega Mark. “Qui la gente si ubriaca, beve tutto il giorno, e poi magari lancia la macchina giù da un dirupo”
Jon gli fa eco. “ ‘Ehi, tienimi la birra che ti faccio vedere che ne faccio di questa macchina”, ecco che può succedere qui in Kentucky quando bevono troppo”.
(To be continued…)
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